Elogio del confessionale

Paolo Rodari

Strano posto il confessionale. Per i credenti è un luogo sacro dove si dicono i propri peccati e se ne chiede la remissione. Per chi non crede può essere un posto ambiguo, anche spaventevole. Perché lì si dice tutto di sé, più o meno come dallo psicoanalista. Perché lì, a volte, c'è chi va oltre il consentito. Il New York Times lo scorso 25 marzo ha parlato degli abusi su minori commessi dal reverendo Lawrence Murphy proprio nel confessionale. Padre Marcial Maciel Degollado, il fondatore dei Legionari di Cristo, pare usasse il confessionale per assolvere i discepoli coi quali aveva avuto rapporti.

    Strano posto il confessionale. Per i credenti è un luogo sacro dove si dicono i propri peccati e se ne chiede la remissione. Per chi non crede può essere un posto ambiguo, anche spaventevole. Perché lì si dice tutto di sé, più o meno come dallo psicoanalista. Perché lì, a volte, c'è chi va oltre il consentito. Il New York Times lo scorso 25 marzo ha parlato degli abusi su minori commessi dal reverendo Lawrence Murphy proprio nel confessionale. Padre Marcial Maciel Degollado, il fondatore dei Legionari di Cristo, pare usasse il confessionale per assolvere i discepoli coi quali aveva avuto rapporti.

    Le Iene mercoledì scorso giorni fa hanno fatto vedere su Italia1 un video girato con una telecamera nascosta: un presunto “prete molestatore” cerca di abusare di un ragazzo. Immagini che impressionano, tanto che ieri il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ha scritto alle Iene per chiedere loro di dire la verità: se il “prete molestatore” esiste davvero “sputate fuori il nome e farete un servizio alla verità”, altrimenti il gioco è sporco. Monsignor Gianfranco Girotti, numero due della Penitenzieria apostolica (è l'organo vaticano che da secoli assegna grazie, attribuisce dispense, sanzioni e condoni) dice che il confessionale è un luogo “dove si esercita un sacramento con regole certe”. “Il prete e il penitente sono collocati in compartimenti separati e parlano tramite una grata traforata. La norma è ancora quella. E anche se non c'è relazione tra la prassi introdotta dopo il Concilio Vaticano II, con molte confessioni in confessionali senza grata, e i casi di abusi commessi in queste circostanze da dei preti, occorre ricordare che nessuno ha mai abolito la grata”.

    Perché allora c'è chi confessa senza grata? “Dopo il Vaticano II, per motivi pastorali, è invalsa la prassi che permette al confessore e al penitente di guardarsi in faccia, ma è una prassi, non la norma”. Cosa dice la norma? “Dice una parola chiara: si esige. Si esige la grata. Tra l'altro, secondo il codice di diritto canonico, il sacramento deve celebrarsi non solo in un luogo provvisto di grata ma pure in un posto ben visibile all'interno delle chiese”. Il confessionale fu opera di Carlo Borromeo. Fu lui, il cardinal nipote di Pio IV che aveva sovrinteso alla conclusione del Concilio di Trento e intendeva trasformare Milano nel laboratorio creativo delle indicazioni pastorali scaturite dallo stesso Concilio, a inventare quella specie di scatola di legno con due grate ai lati.

    Il penitente s'inginocchia fuori una di queste. Il prete può riconoscerlo a stento, o non riconoscerlo del tutto, e lui può non riconoscere il prete. Troppi erano i rischi di contatto tra le penitenti e il confessore nelle abitazioni private di quest'ultimo. E poi c'era da contrastare la Riforma che voleva far passare l'idea della possibilità della confessione senza prete: un contatto diretto tra la coscienza e Dio.

    Trento ribadì l'importanza della “confessione privata”, appunto il duetto penitente-confessore. Perché la confessione è cosa oggettiva, il momento dove si recitano i peccati a un prete il quale “non è uno psicologo dell'anima – ha detto Benedetto XVI nella lettera con la quale ha aperto l'anno sacerdotale – in quanto la psicologia è portata a giustificare e cercare attenuanti, mentre il senso di colpa resta”. Dice il vaticanista Sandro Magister: “Non è secondario che Benedetto XVI, quando si è fatto vedere in pubblico mentre si confessava, il venerdì santo, l'abbia fatto in San Pietro nel confessionale tradizionale. Inoltre, non è senza senso un'altra indicazione. Ratzinger ha voluto l'anno sacerdotale. E in quest'anno ha voluto indicare come modello il Curato d'Ars, un prete che passava ore e ore in confessionale. E' un modello controcorrente, un sacerdote che non ritiene la confessione un momento di confronto confidenziale ma un sacramento in cui, protetti dalla grata, si dicono i peccati commessi”.
    Come Ratzinger anche Wojtyla viveva la confessione nel segno tridentino. Le cronache vaticane raccontano che il venerdì santo amava scendere in San Pietro quando ancora la basilica era chiusa. Entrava in un confessionale e aspettava che la basilica aprisse. Chi si confessava non sapeva che il confessore fosse Giovanni Paolo II. La grata non permetteva d'identificarlo.

    Dopo il Vaticano II la battaglia liturgica fu aspra. Dentro questa ci fu la battaglia sugli spazi e gli arredi sacri: l'altare verso il popolo, il tabernacolo spostato in una cappella laterale e anche il confessionale. Tuonò nel 1992, e la stampa lo riprese con grande enfasi, Giambattista Torello, sacerdote psichiatra allievo di Viktor Frankl, fondatore della logoterapia. Sulla rivista Studi Cattolici, vicina all'Opus Dei, scrisse: “E' stato il Vaticano II a dare inizio al periodo della decadenza del confessionale tradizionale, incoraggiando un nuovo modo di pentirsi davanti al sacerdote”. I confessionali divennero “come dei piccoli ambulatori insonorizzati dove al prete si va a raccontare i propri problemi, come si fosse dallo psicologo”. Il confessionale con la grata, invece, “impone la raccomandabile brevità del colloquio e la limitazione all'essenziale” ed evita che il dialogo diretto “con una donna e un giovane che descrivono mancanze contro la castità assumano un fascino morboso”. Insieme, rende più facile per il prete mantenere il ‘sigillum confessionis', il segreto, perché la grata permette al confessore di non decifrare l'identità del penitente.
    Nel XIII secolo fu il chierico inglese Tommaso di Chobham a scrivere in un Manuale di confessione il perché della necessità di mantenere il segreto: “Il sigillo della confessione deve essere segreto perché lì il confessore siede come Dio e non come uomo”.